(...) se voler fu o destino o fortuna,/non so; ma, passeggiando tra le teste,/forte percossi ’l piè nel viso ad una./Piangendo mi sgridò: "Perché mi peste?/se tu non vieni a crescer la vendetta/di Montaperti, perché mi moleste?
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Chi colpisce Dante col suo piede girovagando tra i gironi dell’Inferno?
Che c’entra la Divina Commedia con il nostro articolo dedicato ai pittori del ‘300 italiano?
A cosa si riferisce il dannato quando parla della “vendetta di Montaperti”?
Lo scopriremo insieme tra poco.
Per ora ti basta sapere che il percorso di oggi si snoda nelle prime sale di uno dei musei più importanti del mondo, nel nostro percorso in 5 opere dedicato alla “pittura delle origini” con:
- i Primitivi agli Uffizi di Firenze.
E dopo il percorso di visita Leonardo agli Uffizi, torniamo nel museo fiorentino per parlare di 5 opere dipinte dai Primitivi e cioè quegli immensi pittori che – tra la fine del ‘200 e la metà del ‘300 – sono all’origine della storia dell’arte italiana.
I Primitivi agli Uffizi: cinque opere
Nel percorso di oggi incontreremo 5 grandi pittori: 2 fiorentini e 3 senesi.
Tra le stanze che ospitano i Primitivi agli Uffizi, si delinea una decisa differenza tra la scuola di pittura fiorentina e la scuola senese. E queste cinque mirabili opere ne sono la più altra rappresentazione:
- la Maestà di Santa Trinita di Cimabue,
- la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna,
- la Maestà di Ognissanti di Giotto,
- l’Annunciazione di Simone Martini,
- e la Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti.
Ma ben più grave e violenta è la rivalità politica e territoriale tra le due città: uno scontro per l’egemonia della Toscana che avrà il suo apice in una cruenta battaglia fratricida.
La battaglia di Montaperti: Siena e Firenze si sfidano per l’egemonia
È il 4 settembre dell’anno 1260, siamo a pochi chilometri di distanza da Siena nei pressi del borgo di Montaperti.
Le truppe guelfe capeggiate da Firenze stanno per sferrare l’attacco finale per la conquista della città di Siena. Dall’altra parte i ghibellini – fedeli all’imperatore e guidati dai senesi – anche se inferiori di numero, si organizzano al meglio per contrastare l’onda d’urto dei nemici.
I fiorentini stanno per avere la meglio.
Ma proprio nel momento più difficile avviene il colpo di scena: i ghibellini fiorentini, infiltrati tra le truppe guelfe, iniziano a scagliarsi contro i loro stessi concittadini.
I guelfi perdono l’orientamento e cadono nel panico.
I senesi iniziano ad avanzare, prendono il comando delle operazioni e sovrastano la fazione guelfa in una battaglia che si trasformerà in una vera e propria carneficina per i fiorentini.
La vittoria dei senesi e dei ghibellini, oltre al loro coraggio e alle truppe imperiali, fu possibile grazie al tradimento dei ghibellini fiorentini.
E tra questi occupava un ruolo di primo piano il nobile fiorentino Bocca degli Abati, proprio il dannato che Dante colpisce col piede nel Canto XXXII dell’Inferno.
Dal campo di battaglia alla pittura: scuola senese e scuola fiorentina
La battaglia di Montaperti segna l’ascesa di Siena nello scacchiere politico toscano e italiano dell’epoca. Tra il 1287 ed il 1355, la guida della città è affidata al cosiddetto Governo dei Nove: si tratta di nove magistrati eletti tra le fila della rampante e ricchissima borghesia mercantile dell’epoca.
In questo periodo vengono costruiti i simboli architettonici della città come Piazza del Campo, il Palazzo Pubblico e la Torre del Mangia e sempre durante il Governo dei Nove nasce la scuola senese di pittura con Duccio di Buoninsegna e Simone Martini.
Dall’altra parte Firenze esce sconfitta da Montaperti, ma nel giro di pochissimi anni si riprende con tenacia e determinazione il ruolo primario che le compete in Toscana.
In questo clima fervido si affermano personalità di spicco dell’arte come l’architetto e scultore Arnolfo di Cambio e pittori del calibro di Cimabue e Giotto, capostipiti della scuola di pittura fiorentina.
Le due scuole sono piuttosto distanti tra loro. I senesi danno grande importanza al colore ma soprattutto alla forza della linea di contorno, che si può dire ancora gotica: una linea floreale per dirla con Roberto Longhi che trova il suo apice nel raffinato lirismo di Simone Martini.
I fiorentini danno maggior risalto allo spazio, alla costruzione dell’ambiente del dipinto che ancora non conosce la prospettiva scientifica rinascimentale ma inizia a comunicare un certo “senso di profondità”.
Ma al di là delle differenze formali, è pur vero che i pittori delle due scuole entrarono continuamente in contatto tra di loro influenzandosi a vicenda nel modo di dipingere.
Infatti, quattro dei cinque pittori del nostro percorso lavorarono, a fasi alterne e in tempi diversi, nel mitico “cantiere di Assisi”.
Premesso tutto ciò, ora è finalmente giunto il momento di scoprire insieme i capolavori dei Primitivi agli Uffizi di Firenze.
1 di 5: la Maestà di Santa Trinita di Cimabue
Cimabue è il punto di inizio del nostro percorso tra i Primitivi agli Uffizi. È un pittore consegnato al mito, considerando che si conosce pochissimo della sua vita.
A dargli il ruolo di guida nell’arte italiana contribuiscono Dante – che nel Purgatorio afferma: “Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo…” – e Giorgio Vasari, il primo storico dell’arte, il quale apre il ciclo delle celeberrime Vite proprio con la biografia di Cimabue.
All’interno della “sala dei Primitivi” sono presenti tre Maestà.
Nella storia dell’arte si intende con questo termine la rappresentazione della Madonna in trono col Bambino.
La prima è proprio la:
- Maestà di Santa Trinita di Cimabue
così chiamata perché dipinta per la chiesa fiorentina di Santa Trinita.
In questa colossale tavola, Cimabue è ancora figlio della pittura bizantina, come testimonia il fondo oro della composizione. Ma nella costruzione del gigantesco trono su cui siede la Vergine, inizia a scorgersi quella ricerca della profondità spaziale che più tardi Giotto saprà portare ad un primo livello di compimento.
Una nota singolare nel dipinto è rappresentata dai quattro profeti raffigurati all’interno degli archi alla base del trono. Da sinistra abbiamo: Geremia, Abramo, David e Isaia. Specie i due profeti ai lati, Geremia e Isaia, sembrano quasi affacciarsi all’esterno delle arcate per guardare all’insù in direzione del Bambino.
2 di 5: la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna
Il percorso tra i Primitivi agli Uffizi continua nella stessa sala con la:
- Maestà di Duccio di Buoninsegna,
più nota come Madonna Rucellai. Così chiamata perché per secoli è stata esposta nella cappella Rucellai della chiesa di S. Maria Novella.
Si pensa che Duccio partecipò al cantiere di Assisi negli stessi anni in cui lì si trovava anche Cimabue. Anzi, molti credono addirittura che Duccio fosse tra gli aiutanti dello stesso pittore fiorentino e ciò testimonierebbe lo scambio di vedute e le influenze reciproche intercorse tra quelli che sono considerati i due capostipiti delle scuole pittoriche.
La riprova sarebbe che, per tantissimo tempo, questo dipinto è stato attribuito direttamente a Cimabue, mentre oggi è cosa certa che la tavola fu commissionata a Duccio dalla compagnia dei Laudesi che si riuniva nella chiesa di S. Maria Novella.
Anche a livello formale sono molte le similitudini con la Maestà di Cimabue, ma in Duccio, malgrado l’ammirevole tentativo del trono messo leggermente di traverso, puoi osservare una minore consapevolezza della profondità dello spazio in quanto il trono è sostanzialmente piatto.
La linea gotica e floreale trionfa nel fondo oro, negli angeli che sembrano sospesi in aria e nel drappo a motivi floreali alle spalle della Vergine.
3 di 5: la Maestà di Ognissanti di Giotto
E ora tra i Primitivi agli Uffizi ci imbattiamo nella:
- Maestà di Ognissanti di Giotto,
dipinta per l’omonima chiesa fiorentina.

Anche Giotto utilizza gli elementi tipici dei suoi predecessori come la tavola a cuspide, il fondo oro, il Bambino benedicente e il trono dalle forme gotiche già visti in Cimabue e Duccio.
Detto questo, Giotto va oltre.
La tavola segna un deciso scatto in avanti nella ricerca realistica dello spazio.
Il passo in più si nota soprattutto nella realizzazione del trono, che non è più un elemento piatto come in Duccio ma è una vera “macchina architettonica”, con un volume proprio e una profondità reale, dalle cui ali laterali sembrano quasi affacciarsi i santi posti di scorcio alle spalle della Vergine.
I personaggi laterali, angeli e santi, non fluttuano nell’etere ma sembrano ben piantati per terra e, grazie ad un uso già eccelso del chiaroscuro, i loro corpi hanno volumi ben definiti.
Anche i dettagli concorrono ad accentuare l’aspetto realistico della tavola, come i vasi con rose e gigli tenuti in mano dagli angeli posti ai piedi del trono su cui si staglia la figura solenne e realistica della Madonna.
4 di 5: l’Annunciazione di Simone Martini
Usciti da questa sala, il percorso tra i Primitivi agli Uffizi continua con la magica:
- Annunciazione di Simone Martini
originariamente dipinta per la cappella di Sant’Ansano nel Duomo di Siena.
Simone Martini è allievo di Duccio, anche lui lavora ad Assisi dove vede gli affreschi dei fiorentini, ma quasi ignora le ricerche spaziali e realistiche di Giotto.
Anzi, porta alle estreme conseguenze la linea floreale dei senesi e tende un occhio al gotico francese in una esplosione di sublime raffinatezza.
Totalmente irreali sono il tipico fondo oro della composizione, il trono su cui è seduta la Vergine, il pavimento su cui si svolge la scena.
L’arcangelo Gabriele è appena atterrato, le ali di pavone e il mantello sembrano ancora svolazzare mossi dal vento. La Vergine, seduta sul suo trono, ripiega il libro che sta leggendo e si ritrae quasi spaventata alla vista della figura celeste, chiudendo turbata il suo mantello con la mano destra.
Dalla bocca dell’Arcangelo fuoriescono le parole dell’annuncio divino, impresse in rilievo sul fondo color dell’oro: Ave gratia plena Dominus tecum.
L’unico elemento di realtà, in questa scena dal sapore ultraterreno, è il vaso con i gigli – i fiori che simboleggiano la purezza della Vergine – posto al centro della scena.
Negli scomparti laterali del trittico cuspidato, vengono raffigurati a sinistra Sant’Ansano, uno dei patroni di Siena riconoscibile per il vessillo di colore bianco e nero simbolo della città, e a destra Massima la madre di Ansano. Molto probabilmente i due santi furono dipinti da Lippo Memmi, altro grande pittore senese e cognato di Simone Martini.
Sulla cornice inferiore della tavola, è riportata un’iscrizione col nome dei pittori e l’anno di esecuzione: SYMON MARTINI ET LIPPUS MEMMIS DE SENIS ME PINCXERUNT ANNO DOMINI MCCCXXXIII.
5 di 5: la Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti
Il nostro percorso, tra le 5 opere dei Primitivi agli Uffizi, si conclude con la tavola nota come:
- la Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti.
Ambrogio è l’unico dei cinque pittori che non sembra aver mai partecipato al cantiere di Assisi.
Anche lui è allievo di Duccio, non può non conoscere Simone Martini ed è il fratello minore di Pietro, altro grande esponente della scuola senese.
Intorno agli anni ’30 del ‘300 è avvistato a Firenze, dove entra in contatto con Giotto e la sua cerchia.
Passiamo al dipinto.
Quaranta giorni dopo il parto, come da tradizione Maria presenta Gesù al tempio ebraico. Il Bambino ha ormai un carattere molto più naturale del Cristo benedicente di Cimabue e Duccio: quello qui raffigurato da Ambrogio addirittura si succhia un dito come un bambino appena nato.
Nella fuga prospettica del pavimento Lorenzetti, memore della lezione di Giotto, tenta in maniera anche abbastanza convinta la ricerca della profondità spaziale, che viene però quasi contraddetta dalla raffigurazione contestuale sia dell’interno che dell’esterno del tempio.
Nei colori fulgidi, nella ricchezza dei dettagli, nelle figure eteree, Ambrogio è totalmente senese anche se non arriverà mai alle vette estreme di Simone Martini.
Oggi la tavola, che originariamente era un trittico, è priva degli scomparti laterali e nella banda inferiore riporta l’iscrizione con l’autore e l’anno di realizzazione: AMBROSIUS LAURENTII DE SENIS FECIT HOC OPUS ANNO DOMINI MCCCXLII.
E per sottolineare ancora una volta le affinità e le divergenze tra le due scuole nel nostro percorso tra i Primitivi agli Uffizi, ci affidiamo alle icastiche parole di Roberto Longhi:
Immaginate il contrario di Duccio e avrete Giotto. Duccio immaginava tutto il mondo intrecciato a una pergola sottile che disegna il tralcio nel celo abbacinato dal sole, Giotto è tutto convinzione plastica e spaziale.